Statua di Cosimo Ridolfi

Cosimo Ridolfi

di ANTONIO SALTINI su Agrarian Sciences

Lo studioso


Nacque da nobile famiglia fiorentina e, tra le tante attività che svolse, sicuramente quella che più lo rese illustre – dapprima sotto il granducato di Toscana poi nel Regno d’Italia – è quella legata alle ricerche di agronomia, che svolse sul campo, nella sua fattoria di Meleto  (Castelfiorentino-Fi) nella Valdelsa, creando il primo Istituto agrario in Italia, (poi continuato dall’Accademia dei Georgofili). Nel Granducato di Toscana durante l’illuminato periodo lorenese, con l’aumentare della popolazione si presentò il problema di risolvere la scarsità di cibo e di alimenti. In questo ambiente il Ridolfi, che ben rappresenta il temperamento filantropico della classe moderata della Toscana di quel periodo, raccolse le esperienze d’avanguardia che nel campo della agronomia erano presenti in Europa e le ripropose in Toscana, a beneficio tutti coloro che lavoravano nell’agricoltura, dai latifondisti ai fattori. Dal 1840 al 1845 tenne la cattedra di agronomia presso l’università di Pisa.

Per divulgare le sue ricerche nel 1827 creò il “Giornale Agrario della Toscana” assieme a G.P. Vieusseux e a Lambruschini, e per aiutare i risparmiatori nel 1828 ispirò la creazione di una Cassa di risparmio che favorisse gli investimenti in agricoltura. Questa banca ancora oggi si chiama Cassa di Risparmio di Firenze.

 

L’attività politica

 

Nel Granducato di Toscana fu Ministro dell’interno nel 1847 e il 2 giugno 1848 divenne Presidente del consiglio dei ministri. Ma, poiché il momento politico era particolarmente gravido di tensioni, si dimise dalla carica il 30 luglio. L’anno successivo fu eletto alla presidenza del consiglio dei deputati. Quando il partito democratico andò al potere fu oggetto di contestazioni e manifestazioni ostili: pertranto si ritirò a Meleto; ma il 10 gennaio 1849 tornò a Firenze per partecipare alla discussione per la costituente. Nel periodo successivo visse lontano dalla vita politica, dedito alle attività legate al miglioramento agricolo. Al momento della caduta della dinastia dei Lorena, nel 1859, fu chiamato a far parte del Governo Provvisorio Toscano come Ministro dell’Istruzione, con l’interim degli affari esteri; dopo l’unione della Toscana al Piemonte, il 23 marzo 1860 fu nominato senatore.

 

L’alfiere risorgimentale della scuola agronomica toscana


In Italia fino all’ottocento
si perpetuano tre scuole agronomiche, quella lombarda, quella toscana e quella napoletana. È la seconda a imporre un lungo primato, che conosce il proprio apice nell’Ottocento, quando Cosimo Ridolfi cerca di forzare con le conoscenze agronomiche i limiti intrinseci di un’agricoltura insediata in una regione di poveri suoli di collina. Il declino dell’agricoltura collinare rispetto a quella delle pianure padane segnerà il fato della cultura agronomica che tra quelle colline è fiorita. Dal cuore del Medioevo all’Unificazione l’Italia è paese diviso in principati le cui genti parlano dialetti tra loro incomprensibili, le cui classi colte comunicano in una lingua che alimenta una sola letteratura, che non accomuna, tuttavia, le tradizioni cultuali, che conservano elementi cospicui di indipendenza. Tra i patrimoni in maggiore dissonanza deve annoverarsi l’agronomia, una scienza che le radici nella terra, e la dipendenza dal clima, rendono direttamente legata all’ambiente in cui matura. Quando, sulle spoglie dell’opaca letteratura agraria medievale, che parlava latino e che, per la matrice scolastica, tanta poca aderenza dimostrava a suoli e climi diversi, nasce l’agronomia in lingua italiana, le sue creature mostrano un’incoercibile impronta regionale.

Nasce nel cinquecento la scuola agronomica toscana, il cui manifesto è un’opera in versi, un poema didascalico, nasce, qualche decennio più tardi la scuola lombarda, che ha il proprio centro creativo a Brescia, e che stampa le proprie opere a Venezia, che, città marinara, non alimenta una scuola veneta.

Sboccia più tardi la scuola napoletana, che   il proprio apice nel Settecento, quando la vivace editoria che vive ai piedi Vesuvio del  propone un profluvio di opere di imitazione dei capolavori francesi, espressione di fervida capacità divulgativa, prova dell’inesistenza di ogni impegno sperimentale autonomo. Nello stesso secolo il centro degli studi agrari lombardi si sposta a Milano, che, per la maggiore suscettibilità della pianura irrigua all’impiego delle invenzioni chimiche e meccaniche, assurgerà, nel crepuscolo dell’Ottocento, ad epicentro della cultura agraria dell’Italia unita.

 

Una dottrina per la coltura dei colli


 

Il poema che inaugura la letteratura agraria toscana, “La coltivazione” di Luigi Alamanni, il patrizio fiorentino che attenta alla vita di Giulio de’ Medici, fugge in Francia e assurge a maestro di casa, sulla Loira, di Caterina de’ Medici, propone, tra i caratteri peculiari, la grande attenzione per la tutela della terra dalle rovine dell’acqua, la preoccupazione preminente di un osservatore dell’attività rurale che ha compreso che il problema cardinale dell’agricoltura di una regione di colline è la salvaguardia del suolo dall’erosione che ne minaccia, con la fertilità, la stessa sussistenza. Sfruttare terre di collina in un ambiente arido d’estate, insidiato da piogge violente in autunno e in primavera significa, innanzitutto, preservare il fondamento di ogni produzione, il suolo, dalle rapine delle acque, un’istanza che compenetra tutte le pratiche agrarie configurando un’autentica agronomia dei rilievi.
L’impronta imposta, genialmente, da Alamanni all’agronomia toscana si perpetua nel tempo: il maggiore agronomo toscano del Settecento, l’abate Landeschi, dedica tutta la propria opera allo studio delle sistemazioni, quella sagomatura dei colli che ne rende più agevole la coltura facilitando l’assorbimento dell’acqua primaverile, così da favorire la vegetazione nei mesi aridi, impedendo, nel contempo, il dilavamento del suolo.
Al tempo di Landeschi la Toscana è il giardino d’Europa: le immense ricchezze di Firenze, ricchezze industriali e bancarie, si sono trasfuse, nella decadenza economica della città, nelle campagne, sagomando i colli del Chianti, della Valdelsa e del Valdarno in terrazzi arborati, dove ai piedi degli aceri vitati si alternano le colture cerealicole. È una coltura che richiede la continua sorveglianza, e la cura assidua, del contadino, che la possidenza toscana si assicura affidando la terra a famiglie di mezzadri, ognuna insediata in un ampio casolare al centro di un piccolo podere. I grandi proprietari possiedono decine di poderi, riuniti in fattorie, il cui centro, la sontuosa villa non di rado disegnata da un grande architetto, è, oltre che espressione di magnificenza signorile, funzionale centro di raccolta dei prodotti. All’economia della villa presiede il fattore, il vero protagonista dell’agricoltura toscana, tramite tra le famiglie contadine e un proprietario che poco si cura della conduzione dell’azienda, 
quindi il vero arbitro, tecnico, economico e civile, della vita rurale.

 

Oltre le apparenze, il seme della decadenza

 

A metà dell’Ottocento la scienza offre, per la prima volta nella storia, strumenti nuovi alla produzione dei campi: i concimi fosfatici, creature della chimica, i nuovi aratri, erpici e coltivatori in ghisa e acciaio, creature della nuova metallurgia. Fino dalle prime esperienze i nuovi strumenti mostrano di saper eprimere il proprio potenziale soprattutto nelle terre di pianura, dove la macchina non incontra ostacoli e mostra di potere prima esaltare, quindi sostituire il lavoro degli animali. Solo l’occhio dei grandi agronomi percepisce, peraltro, la svolta, una svolta che si profila particolarmente significativa in Italia, la cui civiltà millenaria si è accentrata prevalentemente nelle aree collinari, la cui ricchezza economica ha corrisposto ai fasti di Firenze e di Siena, di Urbino e di Perugia. La stessa Bologna è stata la ricca capitale di una regione in gran parte collinare. Paradossalmente, mentre il progresso scientifico destina l’agricoltura collinare ad un ruolo economico marginale, la classe politica protagonista dell’Unità vede negli ordinamenti tradizionali della collina dell’Italia centrale, in specie quella fiorentina, il modello insuperato dell’ordine economico e sociale che dovrebbe essere propagato in tutto il Paese. I patrioti che unificano l’Italia sono, si deve rilevare, ideologi e letterati, le cui conoscenze tecnologiche, economiche e geografiche sono, troppo frequentemente, generiche e lacunose: quando Garibaldi conquista la Sicilia, a Torino si crede di annettere al Piemonte un’immensa, opulenta Conca d’Oro, si ignora che l’interno della Sicilia è un deserto cerealicolo, terra di miseria economica e di abiezione sociale. Sarà proprio per le aree più povere del Mezzogiorno che i pensatori politici più sensibili proporranno la panacea della mezzadria toscana, paradigma di ricchezza economica e di concordia civile. Alla proposta i ceti possidenti del Mezzogiorno opporranno, peraltro, la più torpida indifferenza.

Intravede la fragilità del sistema di conduzione di cui gli ignari magnificano la solidità un patrizio fiorentino che nell’azienda di famiglia ha esperito sforzi lungimiranti, e vani, per superare le remore intrinseche dell’ambiente, per ovviare alla rigidità organizzativa della fattoria mezzadrile, il marchese Cosimo Ridolfi, con il milanese Gaetano Cantoni solo, tra gli agronomi italiani, a vantare, nell’Ottocento, una levatura europea.

Agronomo e uomo politico, Ridolfi è tra i pochissimi protagonisti del Risorgimento dotati di autentica cultura scientifica, economica, geografica: la ricchezza di famiglia non è stata, per lui, occasione di cacce e di feste, ha studiato con passione la chimica, si è procurato i migliori testi di agronomia francesi e inglesi, incantato dal nuovo pensiero economico ha percorso l’Europa per conoscere gli alfieri del progresso agricolo del Continente. Al ritorno il confronto tra le pianure centroeuropee e le sue terre lo ha convinto dell’inferiorità economica della collina dell’Italia centrale, che si è impegnato a superare sperimentando, nella fattoria di Meleto, nuovi ordinamenti, per diffondere i quali ha organizzato incontri di studio tra nobili possidenti, e una scuola di formazione per i figli dei fattori. Si è impegnato a diffondere i risultati di esperienze e dibattiti nel Giornale agrario toscano, che ha creato con altri due amici, patrizi illuminati, Lapo de’ Ricci e Raffaello Lambruschini.

Nel 1842 il Governo granducale accoglie le sue istanze e fonda, a Pisa, la prima facoltà di agraria d’Italia, che gli affida. Preside e insegnante, Ridolfi inizia una fervida attività di sperimentazione e di insegnamento, che mira a realizzare circondandosi dei migliori coadiutori, che richiama anche da regioni diverse. Gli impegni politici lo sottraggono alla facoltà e lo insediano a Firenze, dove è precettore dell’erede alla successione, quindi presidente del Consiglio quando, nel 1848, il Granducato si unisce al Piemonte contro l’Austria. Alla restaurazione, il Granduca impone all’antico precettore di famiglia un onorevole esilio politico nel castello avito, dove Ridolfi si immerge negli amati studi agrari.

Se gli è vietato di svolgere attività politica non gli è impedito di tenere conferenze agronomiche, e tra il 1857 e il 1858 svolge ad Empoli, per cinquantuno domeniche, un corso di lezioni cui invita possidenti e fattori della Valdelsa. Frutto delle conoscenze teoriche, dell’esperienza pratica e della lunga riflessione economica, preparate, nel corso della settimana, con ogni cura, le lezioni compongono un disegno organico di scienza e tecnica agrarie, senza dubbio il capolavoro della letteratura agronomica italiana dell’Ottocento. Chiave di volta dell’intero corso, il proposito di convincere proprietari e fattori che le apparenze della ricchezza agraria toscana sono ingannevoli, che per affrontare il futuro la tradizionale fattoria mezzadrile deve intraprendere un imponente sforzo di rinnovamento, che deve ridisegnare tanto i rapporti tra colture arboree ed erbacee quanto quelli tra colture cerealicole e foraggere, per modificare radicalmente, come conseguenza, l’equilbrio tra le coltivazioni e gli allevamenti.

 

 

Nuovi ordinamenti, nuove rotazioni

 

 

Non sono poche, nel corso delle Lezioni, le pagine in cui la consapevolezza dell’urgenza di rinnovare spinge Ridolfi a imprimere alla semplice, concreta prosa delle conversazioni con possidenti e fattori l’afflato della perorazione politica, dettandogli passi della più lucida sintesi storica, della più alta prosa civile. Tra tutti si può trascrivere come emblematica una pagina della dodicesima lezione, che il marchese fiorentino propone il 16 agosto 1857: “Noi abbiamo questo vago giardino che ci sta sott’occhio, questo regolare scompartimento di campi fatti dai nostri filari di viti: abbiamo quest’amenità di colline, resultato dei nostri oliveti; abbiamo tutte queste culture arboree che occupano quasi la totalità della superficie dei nostri terreni, e vogliamo da questi medesimi campi che destiniamo alla cultura arborea cavare anche i prodotti dei cereali che ci abbisognano, e abbiamo necessità anche di levare i prodotti dei foraggi che sono necessari per mantenere i nostri animali da lavoro, e per darci gli occorrenti letami. Questa, Signori, è una trista condizione: è una bellissima apparenza, ma in sostanza è una grandissima difficoltà che ci siamo creati. La nostra agricoltura nacque quando vi era men bisogno di letami che oggi, perché vi era meno gente da nutrire, perché queste terre in origine erano più fertili di quel che lo siano ora; avendo noi fatto di tutto per smagrirle: dopo un lungo volgere di anni oggi sentiamo la necessità di introdurre i prati, mentre i nostri antichi non la sentivano… Noi non possiamo sostenere il prodotto dei nostri terreni se non comprando i concimi, o preparandoli.

A comprarli si trova ogni giorno maggior difficoltà per crescente deficenza di materia per aumento di concorrenza; per conseguenza diventa più imperioso il prepararli; e per prepararli noi abbiamo una grave difficoltà nella presenza delle piante arboree, perché la promiscuità delle culture nuoce assai…rende sempre più difficile lo stabilire un buon avvicendamento,contrasta con lo stabilirsi di buoni prati artificiali, e diminuisce la libertà di cui avrebbe bisogno l’agricoltore per l’esercizio della propria industria. Io raccomando l’introduzione del trifoglio; ma il trifoglio non fa una carezza alle viti, per quell’anno nel quale vive in quel terreno; non nuoce però quanto si dice… Ma la medica starà quattro anni almeno nel suolo, e se la medica dovrà stare fra lepiante arboree, farà loro del danno considerabile. Cosicché voi vedete che l’avere queste culture promiscue è un inconveniente, un inceppamento; è una difficoltà che contrasta i nostri progressi agrari; eper conseguenza anche sotto questo rapporto …gli agricoltori dovrebbero considerare un po’ l’avvenire, smettere quella mania di coltivare le piante arboree da per tutto; e piuttosto destinar loroesclusivamente delle terre che siano particolarmente buone per la loro cultura, e che non potrebbero egualmente ben servire per la cultura annua dei cereali, né per le culture pratensi; e fare effettivamente delle chiudende d’olivi, delle vigne, delle gelsete, e prepararsi la possibilità diavere delle terre scoperte, delle terre libere, nelle quali poter agire con gl’istrumenti, e potere con libertà introdurre i migliori avvicendamenti…” Sostituire la coltura promiscua con quella specializzata, realizzando vigneti e oliveti in cultura pura, e grandi campi aperti alle macchine, dove sostituire alla rotazione tradizionale le nuove rotazioni che comprendano trifoglio e medica, moltiplicando la produzione di letame, per accrescere la fertilità e elevare le rese cerealicole: in poche righe è un programma per il rinnovamento complessivo degli ordinamenti toscani. Possono parere, al lettore moderno, precetti scontati: chi conosca la profondità delle radici del sistema agrario collinare, e la resistenza al mutamento dell’economia mezzadrile, percepisce per intero la portata del manifesto di Empoli, che è manifesto rivoluzionario. È, il progetto di Ridolfi, prova di penetrazione scientifica, di lungimiranza economica, di acume sociale. Avrebbe potuto mutare il fato dell’agricoltura della collina dell’Italia centrale? Probabilmente no, perché le condizioni pedologiche e climatiche di quell’ambiente non erano modificabili, ma lo sforzo avrebbe evitato la precocità di una decadenza che, dal crepuscolo dell’Ottocento, avrà conseguenze oltremodo onerose. Ma il progetto di Ridolfi è troppo anticipatore per essere compreso da un ceto sociale, l’aristocrazia toscana, felicemente immerso nell’illusione dell’inimitabile perfezione delle proprie fattorie. Gli stessi successori di Ridolfi a Pisa, in primo luogo il siciliano Pietro Cuppari, saranno soggiogati dai convincimenti locali, che ne faranno ferventi paladini della mezzadria, dimentichi dell’insegnamento del maestro, che della mezzadria ha denunciato l’irresolubile legame con la coltura promiscua, quindi la soggezione al fato che, insieme alla coltura promiscua, travolgerà l’economia della fattoria e le dieci, venti microeconomie familiari dei poderi che ne costituiscono i satelliti.
Venerato ma non capito dagli epigoni, Cosimo Ridolfi scrive l’ultima pagina di una scuola agronomica gloriosa: quando, insieme all’economia agraria
, la scienza della coltivazione fisserà i propri interessi nelle pianure che assicurano il terreno ideale alla macchina e al concime, anche la facoltà di agraria fondata dal marchese fiorentino perderà i titoli di primo centro italiano di studi agrari, che contenderanno Milano e Bologna, al centro di regioni agrarie in grado di contendere la palma dei primati produttivi del frumento e del mais, del latte e della carne suina, alle aree chiave della geografia agraria europea: il Brabante e il Linconshire, la Piccardia e la Turingia.

 

L’articolo è uscito in origine su Agrarian Sciences